Iperconnessione e solitudine interiore

Di Alice Balboni  •   Lettura di 5 minuti

Iperconnessione e solitudine interiore

Come l’esposizione continua al mondo dei social media incrementa il senso di solitudine.

È lo sguardo di un altro essere umano che definisce e forma noi stessi, così come non possiamo vivere senza mangiare e dormire, non possiamo comprendere quello che siamo senza lo sguardo dell’altro. Fin dai primi anni di vita nello sguardo della madre, il bambino trova conferma della propria esistenza. In una società in cui lo sguardo non è diretto agli occhi dell’Altro, ma oltrepassa uno schermo, tutto ciò che era concreto, reale e tangibile si è digitalizzato, Bauman direbbe “tutto ciò che era solido si è liquefatto”.

Ci si connette e, in questa connessione, c’è idea di relazione. Relazioni digitali, nelle quali non c’è corpo, l’unico occhio che può farci sentire osservati è quello della fotocamera frontale degli smartphone che fa da specchio e, in questo specchio, siamo soli. Il riflesso di sè, artificiale e artificioso, immortalato nel selfie e condiviso, è mezzo comunicativo d’elezione della nostra identità digitale. Fare selfie è un atto comunicativo, per cui queste immagini devono essere condivise, la loro essenza è l’esibizione, scrive Byung-Chul Han.
Tra il chi si è e il chi si mostra di essere sul medium virtuale o, ancor meglio, sui social media, c’è di mezzo una forma di comunicazione iconica digitale che nell’iper-connessione può produrre distacco dalla realtà e de-realizzazione. Nell’utilizzo compulsivo del cyberspazio diviene sempre più difficile separare la realtà online dalla realtà offline e, specialmente tra i giovani, si rileva aumento di depressione, disturbi di ansia e del sonno. Sintomatologia non esclusiva dell’uso eccessivo della rete, ma come confermano gli studi di Martin H. Maurer, la de-realizzazione è conseguenza esplicita dell’iper-connessione.

Nelle forme di dipendenza da internet si rileva, come in ogni tipo di dipendenza, il bisogno di colmare un vuoto. Tale sofferenza viene illusoriamente ammutolita dal vociare incessante delle miriadi di informazioni online a cui ci si sottopone e, tramite l’esposizione prolungata, nel distorto tentativo di tessere relazioni negli ambienti social, il senso di isolamento si accentua dando origine ad intenso disagio emotivo.
La solitudine emerge laddove, prendendo consapevolezza della natura effimera di certi scambi virtuali, ci si sente non accolti, apprezzati e riconosciuti per chi si è, ma per chi si mostra di essere ed in questo spazio, a metà tra il cyber e il reale, si crea un conflitto tra vera identità e la maschera riprodotta virtualmente.
Vengo apprezzato perché sono io o per la mia immagine riflessa?
L’individuo che, online, può liberamente creare rappresentazioni surreali di sé con il fine di soddisfare lo sguardo, il desiderio altrui o corrispondere ad uno standard, si sottopone a continui check il cui risultato, se recepito ed interiorizzato come metro di apprezzamento e valore individuale, può sfociare in conseguenze destabilizzanti soprattutto per gli adolescenti, per i quali l’identità è ancora in corso di formazione. Il continuo stato di connessione, inoltre, genera, secondo Turkle S., una sensazione di profonda angoscia. Questa, inizialmente, si manifesta con uno stato di eccitazione, ad esempio, nella pubblicazione di un contenuto social e, successivamente, attraverso una sensazione d’ansia per l’attesa del riconoscimento, il like.
Quando, tuttavia, il velo di Maya crolla ci si ritrova soli, consapevoli di non aver tessuto nessuna reale relazione, di non aver ottenuto stima o apprezzamento, e svuotati e tristi, ma ancora ansiosi di condividere qualcosa che nemmeno ci rappresenta, si ricomincia il giro.

Potrebbe il bisogno incessante di incontro con l’altro virtuale esprimersi con il fine di colmare la solitudine?

Se sia la solitudine a spingere le persone ad usare più i social o se sia l’utilizzo dei social che porta gli individui a isolarsi e provare solitudine non è chiaro, tuttavia, probabilmente, il processo è bidirezionale.
Il mondo virtuale è diventato, soprattutto per le nuove generazioni, un modo per sfuggire alla realtà, per ricercare e ricreare nuove identità e ruoli sociali.
In una società liquida, quale quella in cui ci si trova a vivere, l’ascolto interiore è negligentemente beffeggiato, la virtus sta nella concretezza, nel tangibile, nella dimostrazione, nel consumo. In questo panorama pare non esserci molto spazio per l’introspezione, processo che richiede tempo, connessione con la propria emotività, domande che non trovano immediata risposta.
Ed è qui che il mondo dei social emerge come illusoria possibilità salvifica, come luogo per tessere relazioni, come contenitore di risposte rapide.
Fulmineo è anche il modo in cui l’attenzione viene appositamente veicolata su nuovi contenuti, proposti uno dietro l’altro, che non lasciando spazio ad alcuna riflessione, inibiscono il pensiero e distolgono l’individuo dalla propria dimensione interiore. Tale simulazione virtuale della realtà non può soddisfare bisogni interiori, ma può anzi creare nuove forme di malessere come il sentirsi soli poiché ci si racconta attraverso profili che non mostrano chi si è, ma che sono costruiti appositamente per ricevere conferme ed aumentare, utopicamente, la propria autostima nella ricerca di approvazione sociale.

Si ha, infatti, sui social la possibilità di presentarsi in modo artefatto, di modificare, di ritoccare quello che si mostra. Si diventa l’immagine che si è deciso di riflettere, una costruzione mentale di tanti schemi in associazione tra loro: chi penso di dover essere, chi vorrei essere, come penso che gli altri mi approverebbero, come dovrei mostrarmi in linea con l’idea di desiderabilità sociale, come il mondo mi chiede di essere, cosa penso di poter esprimere, cosa penso di dover inibire.
In questa dimensione, realtà e immagine virtuale si confondono e la percezione interna si fa sempre più nebulosa. Tra il chi si è e il chi si pensa di dover essere, e tutte le varie sovrastrutture, si genera conflittualità e sofferenza.
Se la connessione inizia come modo per compensare la difficolta a stare in compagnia di sé stessi, la connessione può terminare con il sentirsi ancora più soli ed anche inadeguati.

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Riferimenti bibliografici
Bauman, Z., 2018. Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi. Bari-Roma:Laterza.
Byung-Chul Han.,2022. Come abbiamo smesso di vivere il reale. Torino: Einaudi Editore.
Pabasari, G,. Internet Addiction Disorder. In Martin H. Maurer (Eds.), Child and Adolescent Mental Health.
Turkle S., Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri. 2012: Codice Edizioni.

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